E’ il giorno dei morti.

Siamo forse risospinti verso i cimiteri, i fiori e le foto da sistemare, le preghiere da recitare o solamente i ricordi che fanno ritorno dalle persone che ce li hanno lasciati, e fanno male.
Dio solo sa quanto basti distrarsi un attimo per ritrovarsi in mezzo a tutte le persone care che ci hanno abbandonato, e sentire che il fiato non sale, e che chi se n’è andato rimane.
Perché a guardarsi attorno e stare accorti, si sa che ogni persona in questa piazza porta su di sé il suo carico di morti.

Eppure siamo vivi!
(Ho proprio detto vivi!)

C’è chi ha beccato un sasso in testa ed è restato appeso a una corda più robusta delle sue aspettative di salvezza, e ora parla e ride accanto a me; c’è chi ha sentito franare sotto i piedi la vita di sempre, gli affetti più cari, un lavoro che è casa, e su quelle rovine sta ancora, imparando a correrci sopra per non finirne schiacciato; c’è chi invece travolto lo è stato, da un lutto improvviso ed ingiusto, e dopo anni non smette di tentare di far combaciare i suoi cocci, non per dargli la forma che avevano, ma la migliore che viene; c’è chi per lungo tempo ha perso la parola e l’allegria, e scavalcando lo sconforto ha ritrovato la sfrontatezza per la via; c’è chi si prende cura di un altro che non tornerà com’era, ma le sbarre di quella gabbia le ha rese una voliera; c’è chi ha fatto oscillare sempre più ciò a cui teneva, tanto da riacchiapparlo al volo prima dello schianto; c’è chi ci ha messo anni per allontanarsi dalla stretta invisibile di una madre morta, dalla promessa di un futuro mancato o dalla condanna fatta a sé di esser perfetta.
Eppure adesso è vivo accanto a me.

“Siamo vivi!” bisognerebbe ricordarcelo più spesso, e poi cantare. O ridere, o abbracciare.

Perché fra lapidi visibili o interiori è facile passeggiare, portare fiori, ma più arduo, più incredibile è celebrare tutta questa vita potente, tenace, universale.

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