Vi ricordate la nostra proposta di un tour originale della Capitale, attraverso le (sempre più numerose) opere di street art cittadina? No? Malissimo: correte a rimediare, leggendo o rileggendo la prima parte del giro di Roma che vi ho proposto! Altrimenti, se vi va, continuate la lettura e seguitemi nella seconda parte del viaggio!

Eravamo rimasti qui, alle undici palazzine del comprensorio 1 di Via Tor Marancia 63, quartiere un tempo lontano dal centro di Roma ma che è stato poi inglobato sempre più nel tessuto urbano della metropoli. Questo passaggio non ne ha attenuato purtroppo i caratteri di marginalità, delinquenza e degrado; per riscattare l’area è intervenuta però l’arte. E precisamente il progetto “Big City Life”, promosso dall’associazione culturale 999Contemporary, che ha voluto dare concretezza a un principio semplice e coraggioso: la bellezza può, anzi deve, essere di tutti. Da tutti può essere compresa e, soprattutto, può abitare anche in luoghi insospettabili, rendendo non solo gli edifici più allegri ma anche le persone più fiere dei luoghi che abitano. Questo è successo nel quartiere di Tormarancia, che nel corso del 2015 è stato invaso da grandi artisti provenienti dall’Italia e dal mondo, per creare quello che è adesso un vero museo all’aria aperta.
Questo insolito museo è frutto per di più della libera creatività degli artisti, certo, ma anche di un dialogo aperto con chi quegli spazi li ha vissuti e li dovrà continuare a vivere al meglio, sentendosene anzi responsabile, vera parte integrante dello spazio che abita.

Opera di streetart: Gaia, “Spettacolo, rinnovamento, maturità”.

Da questo fruttuoso dialogo è nata un’opera come “Spettacolo, rinnovamento, maturità” dell’artista americano Gaia. Come mi spiegano le due signore di ritorno dal mercato, che ormai sono diventate il mio orecchio e il mio occhio sul quartiere, questo murale ha un senso complesso e una nascita travagliata. La struttura da opera metafisica dechirichiana è simbolica in ogni dettaglio: mentre il palazzo nello sfondo è lo stesso su cui l’opera è stata realizzata, raffigurato ovviamente prima dell’intervento artistico, la grande testa di marmo che vi compare richiama il periodo in cui, per volere di Mussolini, fu creata Via della Conciliazione, con un’opera di devastazione della città che spostò chi abitava in quelle zone proprio dove sarebbe sorta la borgata di Tor Marancia. Il pesce stesso ricorda i frequenti allagamenti che la “Shangai” romana, la Tor Marancia delle origini, spesso subiva, ribadendo le terribili condizioni in cui versavano i suoi primi abitanti. Quella che chiaramente è un’arancia, e che si collega quindi al nome del quartiere, era invece all’inizio un mandarino: Gaia ne voleva fare un vago richiamo alle abitudini del Sud Italia, ma sono stati proprio gli abitanti di Tor Marancia, all’interno di quelle dinamiche di confronto che prima accennavamo, a chiedere che il frutto fosse “trasformato” in un arancia, per loro più evocativa. Così come il nome: il titolo dell’opera è stato infatti deciso da persone del quartiere.

Dopo aver camminato fra diamanti e balene, mani e madonne, bambini e arance volanti, mi appresto adesso a salutare le mie anziane amiche: lascio, soddisfatta, un quartiere con una nuova pelle, chiaramente portatrice di gioia e dignità. Mentre me ne vado mi sembra che il quartiere stesso mi ringrazi di aver capito la straordinarietà quotidiana di un posto come questo. Mi sembra quasi di essere osservata, mentre mi allontano. Ma no, quello è solo il grande occhio del portoghese Vhils, l’ultima opera realizzata nel complesso, che mi guarda sornione le spalle, quando me ne vado.

Opera dello streetartist Vhils.

Abbandono Tor Marancia, quindi, per dirigermi in un altro dei quartieri di Roma che più è stato interessato dal fenomeno della street art, dove potrò concludere il mio tour: il quartiere Ostiense.
Sorto all’inizio del Novecento, il quartiere Ostiense rappresentava la modernità rampante di Roma, con le sue centrali elettriche, gli opifici, le fabbriche e le caserme, nate sotto la spinta entusiastica verso il progresso e l’industrializzazione. Gli anni sono passati, però, e molte speranze da allora sono state deluse, lasciando una cornice postindustriale fatta di degrado e inquinamento che, di nuovo, svilisce la Capitale e tende a peggiorare la vita degli abitanti di queste zone. Proprio per questo, mentre sono immersa nel caos del traffico, fra auto che suonano perennemente il clacson e treni che corrono sui binari sopra la mia testa, intristita dal grigiume di un intrico di strade e incroci, ecco che compare davanti a me, improvviso e potente, un pezzo di…Blu.

Opera dello streetartist Blu.

In Via del Porto Fluviale, nel mezzo del disordine cittadino, spicca infatti un intero complesso a colori vivaci. È una vecchia caserma abbandonata e dal 2003 occupata dal Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa, che è stata portata a nuova vita nel 2014 dall’opera di uno degli street artist più famosi d’Italia, nonché uno dei migliori dieci del mondo, per Forbes: Blu, appunto.
Di lui si sa poco, perché un’aura di mistero aleggia addirittura sui suoi dati anagrafici e sul suo aspetto. Originario probabilmente di Senigallia, Blu ha ricevuto però il suo battesimo artistico a Bologna alla fine degli anni novanta, in un susseguirsi di crescenti consensi che l’hanno portato a frequentare le pareti di tutto il mondo: dalla Bolivia alla Palestina, dalla Sardegna al Cile, dalla Spagna alla Sicilia. Non è un personaggio facilmente inquadrabile né afferrabile, Blu: attento alle dinamiche di sfruttamento ambientale, di disuguaglianza sociale e di impoverimento dovuto allo stile di vita moderno, alle guerre imperanti e al dominio dei mass media, l’artista marchigiano esprime nei suoi lavori una presa di posizione netta nei confronti di una realtà e di un’umanità spesso violenta e deforme, mutevole e al tempo stesso schiava delle logiche di consumo che lei ha creato.

Spesso le sue opere suscitano scalpore; scalpore suscitò anche il suo intervento nel quartiere Ostiense quando, accolto e ospitato dai 450 inquilini della caserma per un lavoro interamente da loro autofinanziato, Blu fu visto dondolarsi a dipingere su muri di quell’enorme estensione, fra chi minacciava sgomberi di un palazzo considerato ormai inagibile, chi si scandalizzava per le scarse misure di sicurezza utilizzate e chi lamentava l’abusività dell’opera (svolta in due anni di lavoro senza autorizzazione ufficiale).
Fatto sta che i 27 faccioni colorati guardano ancora oggi i passanti della via, destando ora più ammirazione che critiche, in un arcobaleno di tratti segno di integrazione e apertura. Segno rivolto a chi abita da tempo il quartiere o ha solo la fortuna di passarci, a monito del potere ancora oggi sconvolgente ed emancipante dell’arte.

Così, mentre osservo l’altro lato dell’immensa struttura, dove campeggia un enorme veliero-città preda di spietati palazzinari e attaccato da irreali pirati, capisco cosa intendeva Giovanna Marinelli, ex assessore alla cultura e al turismo di Roma, quando parlava del 25esimo museo civico della città: quello fatto dalla street art, appunto.
Una miriade di opere di artisti più o meno famosi, italiani e stranieri, disseminati per quartieri soprattutto periferici della Capitale, che riescono a trasmettere energia e libertà valorizzando il patrimonio pubblico meno attraente, senza per questo essere ingabbiate in apposite istituzioni. Un museo esploso, in cui camminare e da vivere. “Ci interessa renderlo fruibile”, ricorda infatti l’assessore, “non istituzionalizzarlo.” Come dimostra lo stesso Blu, che sta cancellando molte delle opere da lui realizzate negli anni a Bologna, poiché poi destinate a essere asportate e chiuse in un museo.
La street art deve vivere in strada, a fianco di una viva comunità. E proprio nell’ottica di una migliore conoscenza e rintracciabilità delle tante opere diffuse per Roma, stanno nascendo sempre più guide, manuali e app che aiutano a identificare e localizzare le varie creazioni urbane; guide rivolte ai tanti che, come me, vogliono gustare anche questo lato immaginifico, critico e contemporaneo della città proprio all’interno delle contraddizioni della città stessa.

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