“Il terso e luminoso colore del cielo, e i corpi in esso racchiusi, le stelle che vagano ovunque nello spazio, e la luna e lo splendore del sole dalla vivissima luce; se tutto ciò apparisse ora per la prima volta ai mortali, e all’improvviso si offrisse del tutto inatteso allo sguardo, cos’altro più di codeste essenze potrebbe dirsi prodigioso?

[…] Eppure ormai nessuno, stanco a sazietà di scorgerli, si degna di sollevare lo sguardo ai luminosi templi del cielo.”

Lucrezio, de rerum natura, II, 1023 sgg.

Mentre continuano a diffondersi le immagini del James Webb Space Telescope che mostrano con un contrasto e una nitidezza commoventi, mai visti prima, il nostro infinito e inesplorato Universo, per caso mi trovo a leggere questo brano del I sec a. C. e il commento che ne fa il filosofo Pierre Hadot.
Hadot ci fa notare come

“già l’uomo antico non avesse coscienza di vivere nel mondo, e non avesse tempo di osservare il mondo, e come i filosofi puntassero il dito contro lo scandalo di questa condizione dell’uomo che vive nel mondo senza percepirlo. […]

Gli uomini antichi non conoscevano la scienza moderna, non vivevano in una civiltà industriale e tecnologica, e tuttavia non osservavano il mondo più di quanto non lo facciamo noi abitualmente. Questa è la condizione umana.”

Non ci avevo mai pensato.

Mi ritrovo poi a leggere Pascal.
Il filosofo dei Pensieri rincara la dose, e intesse riflessioni fra gli infiniti possibili e la condizione umana usando, stavolta, il telescopio della sua immaginazione.

Nel numero 43 dice infatti: “l’uomo, ritornato in sé, consideri quel che lui è a confronto di ciò che esiste; si consideri come sperduto in quest’angolo remoto della natura; e, da questa angusta cella in cui si trova, intendo dire l’universo, apprenda a stimare nel giusto modo la terra, i reami, le città e se stesso. Che cos’è l’uomo nell’infinito?”

Un modo per darsi e dare alle crisi il giusto posto e peso, per alleggerirci di ansie e manie di grandezza, è quindi pensare la nostra piccolezza rispetto all’infinitamente grande che ci comprende e ci sovrasta.
Ma non c’è solo quello.

Infatti esiste “un altro prodigio altrettanto meraviglioso; ricerchi, tra ciò che conosce, le cose più minuscole.” Continua Pascal. “Un acaro gli offra nella piccolezza del suo corpo parti infinitamente più piccole; zampe con le loro giunture, vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in questo sangue […] Penserà forse che quella sia l’estrema piccolezza della natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso.”

Due abissi ci circondano, quindi.
Uno infinitamente più grande di noi e uno infinitamente più piccolo.
Difficile evitare un senso di vertigine se ci soffermiamo a pensarci sospesi fra l’infinito e il nulla; fra due abissi grandissimi o infinitesimi, fra due misteri ancora e forse per sempre insondabili, quello dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, fra i quali siamo appena uno spiraglio di vita.

L’uomo non è fatto per le cose estreme; gli eccessi, per quanto si affanni, per sempre gli sfuggono; anzi, è come se per lui non esistessero, aggiunge Pascal, perché sono costituzionalmente al di là della sua portata.
Noi siamo qualcosa, infatti, ma non tutto, e di conseguenza possiamo capire qualcosa ma certo siamo ben lontani dall’onniscienza e dall’onnipotenza su di noi e sulle cose (ovvio a dirsi, ma decisamente meno a farsi).

Questo senso di minorità ci deve spingere perciò a rassegnarci o, peggio, a ignorare l’immensa meraviglia (enorme o minuscola) fra cui siamo incastrati?
Certo che no, ci dicono i filosofi.

Per due motivi: da un lato perché questa consapevolezza di non sapere tutto, ma neanche niente, ci può motivare verso ulteriori confini, facendoci restare consapevoli dei limiti che ci costituiscono;
e dall’altro perché ci può far capire come gli abissi fra cui abitiamo, e di cui noi stessi siamo parte, sono più collegati fra loro e con noi di quanto all’apparenza vediamo.

L’uomo, infatti, scrive ancora il nostro Pascal: “ha rapporto con tutto ciò che conosce. Ha bisogno di spazio che lo contenga, di tempo per durare, di movimento per vivere, di elementi che lo compongano, di calore e di nutrimento per alimentarsi, di aria per respirare; vede la luce, sente i corpi; tutto insomma è collegato a lui.”

Di colpo, quindi, uno sguardo che potrebbe essere stretto dal terrore verso le immensità insondabili intorno e dentro di noi si fa vasto e molteplice, e si trasforma in una possibilità di saggezza; possibilità che, se non toglie la paura, almeno non ci fa sentire così soli e scollegati da quanto ci circonda, bensì legati da un filo di senso a tutto ciò che esiste, in un modo inevitabile e reciprocamente vivo.

E mentre continuo a rimanere senza fiato di fronte alla nebulosa Carina, incubatrice di stelle, alle cinque galassie che danzano insieme o allo sparpagliamento di astri in un minuscolo punto di cielo, un’altra volta ancora mi convinco di quanta bellezza, lontanissima o vicina, rischiamo di perdere ogni giorno, per superficialità, comodità di abitudine e pigrizia di sguardo.

E mi accorgo di quanto spesso ci dimentichiamo di essere noi per primi parte di questa meraviglia infinitamente grande e infinitamente piccola insieme, e trascuriamo che la precaria intercapedine che abitiamo non è un destino di segregazione solitaria ma una posizione unica da cui guardare il tutto e sentircene parte attiva e vivente.
Perché se ci curiamo del mondo, a tutti i livelli di grandezza, ci curiamo in primis di noi stessi.

Menomale ci sono i filosofi e i telescopi spaziali a ricordarcelo, ogni tanto.

Questo articolo ha 2 commenti

  1. Andrea

    Caspita! Una bella apertura mentale e una bella riflessione che unisce ancora qualche puntino tra storia, realtà odierna e futuro.
    Grazie per questo pensiero, sperando di poterlo rileggere con più consapevolezza e coscienza nel prossimo domani.

    1. Martina

      Grazie, Andrea. È proprio una consapevolezza più ampia a cui è necessario tendere, lo credo anch’io. E ci si prova, almeno 🙂

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