451 gradi Fahrenheit sono quelli necessari (secondo Bradbury) a bruciare la carta.
451 gradi Fahrenheit sono anche quelli impressi sull’elmetto di Guy Montag, che di mestiere fa il pompiere, ma non spegne gli incendi, li appicca.
Specialmente, e con gusto, alle pagine dei libri di chi, nel suo futuro assurdo ma non troppo, osa macchiarsi del “reato di lettura”, staccandosi dai grandi schermi televisivi che sono diventati le pareti stesse delle case.
Guy Montag gode nel dare alle fiamme quella carta stampata, colpevole di distrarre i cittadini dalla normale vita ordinata del paese, colpevole di far credere che non siamo tutti uguali, che non dobbiamo essere resi tutti uguali.
Guy Montag ama il suo mestiere, finché il suo occhio non cade su uno di quegli sporchi libri e per una volta, invece di distruggerlo, ne accenna la lettura.
Poi, l’incontro con una strana ragazzina, diversa da tutti gli altri, la domanda: “sei felice?” che lei gli lancia con naturalezza e che rimbomba nell’orecchio di lui e nel vuoto che improvvisamente è la sua vita.
Fino alla crisi, la disobbedienza, la ribellione, la libertà.
Con una prospettiva meno disperante dell’orwelliano “1984”, Ray Bradbury nel suo “Fahrenheit 451” lascia uno spazio alla speranza, ma dimostra anche una incredibile capacità di gettare lo sguardo dal suo 1953 fino alle distorsioni culturali e politiche dei nostri giorni.
Questa è la fantascienza che mi piace, quella che, da lontano, forse vede meglio di noi.