E’ fine maggio. Dal lungo stabilimento industriale adagiato sulla costa, sbucano i tetti dei grandi capannoni di mattoni, affiancati l’uno all’altro e intervallati da dritte ciminiere. La brezza mattutina spinge a riva odore di sale, mare e morte.

Lontano, nell’acqua, grandi imbarcazioni tirano a bordo le reti, portando a galla tonni di incredibili dimensioni. Obbediscono agli ordini urlati dal Rais, che nella sua piccola sciabica freneticamente ondeggia in mezzo a loro, e gode dell’autorità di un dio per conoscenza dei venti, dei tempi e dei movimenti degli animali. Le preghiere davanti al palo di San Pietro, che con le sue immagini votive accompagna la mattanza, si trasformano nei canti delle cialome. Il ritmo delle voci giunge fino a riva, scandendo la fatica dei tonnaroti in questa pesca millenaria e complessa, mentre in fabbrica le donne, accanto alle caldaie, aspettano trepidanti che arrivi il pescato da lavorare.

Il loro non è un lavoro come un altro. Il loro è il lavoro di un’isola intera che si sfama grazie al mare e ha con esso, di conseguenza, un legame unico e intenso.
Il loro era il lavoro che si svolgeva nelle tonnare di Favignana fino alla fine del secolo scorso.

Questa è la storia di una famiglia intraprendente e appassionata, cosmopolita e colta, che però rimase sempre attenta alla misera e splendente Sicilia del suo tempo, l’Ottocento: nell’isola applicò i suoi ideali di sviluppo, fino a creare un enorme impero economico distribuito su varie e prospere attività, e a essa rimase unita fino al tracollo finanziario che la stritolò nel corso del Novecento.
Parliamo della famiglia Florio e del vitale rapporto che questa ebbe, per tre generazioni, con la terra siciliana in generale e con Favignana e le Egadi tutte, nel particolare.

Eppure la famiglia Florio non era neppure originaria dell’isola più grande del Mediterraneo, bensì si era trasferita a Palermo nel 1800 dalla Calabria, iniziando le sue fortune grazie ai commerci di spezie e a una piccola drogheria che era la più fornita e la meglio gestita della città, e che divenne, per questo, la più nota.
La passione della famiglia era però il mare, tanto che Vincenzo Florio, usufruendo degli accordi fra il regno borbonico e il nord Africa, riuscì a mettere su in breve tempo una serie sempre più numerosa di battelli che trasportavano merci da Boston e New York all’Oriente fino a, ovviamente, la Sicilia.
Uomo dal grande talento imprenditoriale ma anche dalla spiccata attenzione al fattore comunitario e culturale, s’impegnò a portare ricchezza nella sua terra co-fondando la “Società dei Battelli a vapore siciliani” ma, soprattutto, dando un via inaspettato alla produzione di un ottimo Marsala, nonostante il monopolio inglese, nell’omonima città siciliana. La bontà del prodotto, la modernità delle tecniche di imbottigliamento utilizzate in fabbrica e il trattamento onorevole dei dipendenti, garantirono alla famiglia un successo crescente, e iniziarono quel legame di lealtà e rispetto fra padroni e lavoratori che sarà presente anche nelle tonnare delle Egadi.

E’ nel 1841 che i Florio ottengono in concessione le tonnare di Favignana e Formica, arrivando nel 1874 a comprare addirittura l’intero arcipelago.
“L’industria domina la forza” recita il motto della famiglia all’ingresso delle Tonnare, e il simbolo leonino rimarca la potenza e la capacità di rischiare propria della famiglia.
Come Vincenzo Florio ha l’intuizione profetica di investire tutto sulla conservazione sott’olio del tonno, non diffusa a quel tempo, al posto di quella sotto sale, così Ignazio (senior), figlio di Vincenzo, si dedicherà a molte altre attività, dimostrando ugualmente la versatilità e la modernità del suo talento.
Inaugurerà una celebre gara automobilistica, la “Targa Florio”, che renderà la Sicilia di inizio Novecento meta privilegiata di viaggiatori e potenti stranieri; aprirà un giornale, dando spazio alla cultura e alle spinte innovative del Risorgimento nella sua terra; comincerà la costruzione del futuro Teatro Massimo a Palermo; fino a confermare la sua potenza economica grazie alla fusione con la compagnia Rubattino di Genova e alla creazione della compagnia della “Navigazione generale italiana”, riferimento obbligato dei trasporti marittimi della nascente nazione italiana.

Ma è a Favignana che anche Ignazio (senior) guarda con particolare amore e attenzione, rendendo la tonnara efficiente al massimo livello e portandola a essere lo stabilimento di lavorazione e conservazione del tonno più all’avanguardia dell’intero Mediterraneo.
E’ poi il figlio Ignazio (junior) a raccoglierne l’eredità, dotando le Tonnare di Favignana dell’illuminazione a gas e producendo lattine di tonno che abbiano un’apertura a chiave, novità assoluta a quel tempo.
Nella Tonnara lavoravano al suo tempo più di novecento persone e venivano pescati ogni anno migliaia di tonni, di cui non veniva buttato nulla. Le reti delle tonnare, poi, con le loro maglie larghe, facevano in modo di imprigionare solo tonni adulti che avessero già compiuto il viaggio per la riproduzione. Pure nell’ultima camera nel lungo e complesso percorso di reti della tonnara, chiamata Camera della Morte, si dava ai tonni una morte più dolce, per soffocamento, prima che d’arpione: il rapporto che intercorreva fra uomini e pesci, infatti, nonostante la crudezza della mattanza, portava nel fondo l’enorme rispetto di chi sa di essere dipendente esso stesso dalla buona salute del pesce e del mare.
La tonnara presto divenne inoltre occasione di riscatto per numerosissime famiglie povere, che al suo interno trovarono una fonte di sostentamento e un luogo dove acquisire competenze qualificate; per non parlare delle donne, che lì potevano contare su un trattamento equo e sulla possibilità affatto scontata di un’indipendenza economica.

“Il mio lavoro era sempre con la testa là, al tonno. A 13 anni sono entrata. Un freddo quel giorno. E pensare che mia zia mi aveva dato anche la mantellina. Ma poi, in 40 anni, mi sono sempre sentita a casa mia. C’era un profumo quando s’accendevano quelle fornaci; ma un profumo per tutto il paese. E ora non c’è più.
Il tonno era il lavoro di Favignana.”
A conferma le parole di Maria, 83 anni e metà della vita trascorsa nelle tonnare.

Spesso residenti nella Villa Florio, opera a Favignana dell’amico architetto Damiani Almeyda, Ignazio (junior) e la sua bellissima e colta moglie Franca, erano poi al centro della vita mondana della piccola isola e della Sicilia intera. Frequentatori degli zar, amici di D’Annunzio, grandi amanti dell’art nouveau, fra Favignana e Palermo contribuirono a rendere splendida la Sicilia della Belle Epoque e diventarono essi stessi leggenda.

Ma ebbero anche varie disgrazie familiari, come la morte di tre figli in giovane età, e subirono un crescente indebitamento con la Banca Commerciale in seguito alla crisi sempre più forte dei primi anni del Novecento.
Nonostante le speculazioni errate e l’attaccamento alla vita mondana della coppia, non si può dire che questa rimase indifferente alle tragedie della propria regione: nel 1908 ritroviamo infatti Ignazio (junior) a scavare fra le macerie del terremoto di Messina, mentre la moglie Franca prestava aiuto nell’infermeria. Il terremoto che investì il loro ingente patrimonio, però, non gli diede davvero scampo, portandoli a perdere praticamente tutto e riducendo Ignazio, ormai anziano, alla malinconia di veder passare quelle che erano state un tempo le sue navi, con un altro nome e un altro proprietario.

Sicuramente gli sbagli della famiglia influirono quindi sull’esito delle loro imprese e, altrettanto sicuramente, la Sicilia del tempo era ancora troppo carente di infrastrutture e investimenti sul territorio per poter diventare competitiva a pieno titolo rispetto all’Italia continentale, ma è innegabile osservare quanto la famiglia Florio si sia impegnata fortemente per rendere la terra siciliana un luogo più ricco e felice, dove gli abitanti potessero trovare sostentamento sia materiale che culturale.

In questo senso la famiglia Florio ha lasciato profondi segni nella terra e nella memoria dei siciliani, che si rivolgono ancora adesso col pensiero a loro parlandone con dignità. Per non dire, quasi, con devozione.

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