A guardare un branco di giovanotti e fanciulle che litigano per scena e si innamorano per diletto su un palco, una sera di maggio a teatro, ci si ricorda pure di noi, ci si ricorda pure perché.

A incontrare i tuoi ex quintini, – non più alunni, ormai, solo persone amiche – , che hanno voglia di vederti, raccontarti, abbracciarti alla fine del loro spettacolo, ci si ricorda che la scuola a volte è come una lumaca, a cui non importa raggiungere chissà quale meta, perché è la scia che lascia negli occhi e nei cuori di molti la sua risorsa segreta.

A sentire lo spazio occupato, le parole ad intarsio, le travi che si lamentano sotto i passi svelti, e gli oggetti che cadono, volano o camminano sulla ribalta, ci si ricorda che il teatro è una vita fatta meglio, è la protesi che mancava e che – per fortuna – qualche volta ci viene resa indietro, a loro, a noi, a tutti.

A vedere le luci che vanno, le voci isolate o in coro, i colori sbiaditi dal tempo delle violenze e delle uniformi, ci si ricorda che non tutto è per sempre deciso nè sotto nè sopra ad un palco, e l’imprevisto è nel conto, e l’andamento è per forza fluido e contorto: sopra o sotto un palco tutto va ugualmente storto, perché è ugualmente vivo.

A vedere le fronti accigliate d’impegno dei prof e dei giovani in ballo, i litigi previsti e i mezzi sorrisi scappati, la voglia di esserci dentro ridendo, purché si stia insieme, – perché se qualcosa riesce è per tutti e non uno solo – ci si ricorda quanto è potente il teatro, che è fatto di corpi e di azioni, di testo e di mondo abbracciati.

A sapere le decine di ore dedicate facendo, scoprendo e provando prima che qualcosa si fissi, perché qualcosa è bene si fissi ma resti anche vivo, – perché, insomma, sulla scena tutto sia finto ma niente sia falso, costruito ma non artefatto – , ci si ricorda che il fare ha sempre più sapore dell’avere fatto, e morto è il concludere ma vivo l’andare.

A guardarmi intorno in una sera come questa, in una sala così grande e piena di gente che vive nel mio stesso mondo, che potrei quasi nominare a uno a uno – coinquilini di aule, di giorni, di gioie e paure – , ci si ricorda quel pezzo di scuola che assai spesso manca, che resta boccheggiante sotto a tutto, che ci unisce senza un protocollo ma che è l’unico motivo, o almeno il sommo, per cui vale assieparsi qua stasera.

Ad accorgersi che in fondo sul palco di amore si parla, per altri e per il proprio paese, e poi di amicizia, perdono, lealtà e pure morte, ci si ricorda di come è normale che questa sia l’acqua perfetta in cui nuotano i giovani e le giovani nostre, che sanno meglio di noi che in fondo questo – e nient’altro – è ciò per cui vale il racconto.

Tanto più ad accorgersi che i ragazzi e le ragazze in scena siamo noi di ottant’anni fa, nel pieno delle scelte e del terrore, della somma viltà e del coraggio spoglio, ci si ricorda la bellezza di certe parole, che molti oggi vorrebbero ridurre a far da insulto, e ci si ricorda, soprattutto, di quanto ancora oggi non si possa fare senza, di una parola bella come Resistenza.

E infine, a sciogliere i pensieri e le tensioni nell’applauso del finale, a vedere l’aura di gioia che si è diffusa in un crescendo fra gli attori e che ha contagiato d’entusiasmo tutti quanti, ci si ricorda come un pugno in viso di quanto questa gioia oggi ci manchi, e tocchi ai nostri giovani e al teatro concederci una pausa dall’abisso, una tregua dall’orrore quotidiano, che oggi più di ieri ci circonda di fame e guerra, mentre interi popoli sono cancellati dalla Terra.

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